GISELLA MOLINOCampo 13. Tirana, Albania. | GISELLA MOLINOCampo 13. Tirana, Albania. |
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GISELLA MOLINOCampo 13. Tirana, Albania. |
Il campo rom vicino alla stazione dei treni a Tirana non ha un nome, non ha una mappa, Insomma, non esiste. I rom stessi non sono censiti, non hanno una residenza, non esistono.
Viene chiamato il campo della stazione, o anche numero 13, perché al numero 13 sta una delle prigioni della città, situata negli immediati paraggi. Due punti di riferimento noti, la stazione e il carcere.
I confini del campo mutano quasi ogni giorno, su un terreno incolto che costeggia i binari della ferrovia e che è in parte adibito al pascolo degli animali.
Lungo gli altri lati è delimitato da una sorta di muro di lamiera, oltre a quel confine ci sono i nuovi palazzi che avanzano, costruzioni che si moltiplicano e che rubano ogni volta un altro pezzo di terra, costringendo i rom a spostare le baracche più in là, finchè ci sarà spazio.
Le baracche, una trentina d’estate (perché molti si trasferiscono a Durazzo e lungo la costa dove c’è più movimento e turismo), sono fatte di legno, plastica, lamiera ed ogni sorta di materiale recuperato.
Senza fondamenta, perché questo popolo pare proprio che non possa o non voglia mettere radici.
All’esterno sono spoglie e poco piacevoli alla vista, quasi tutte hanno un pergolato sotto il quale sostare nelle giornate calde.
All’interno, invece, molte sono più curate, tendine alle finestre, coperte colorate, cimeli trovati chissà dove.
Nel campo non ci sono elettricità, né acqua né fogne.
I bagni sono delle buche riparate alla vista da teli messi a mo di cabine a qualche metro dalle abitazioni.
Qualche fortunato ha un generatore che accende la sera per guardare la televisione, il rumore copre spesso l’audio e il campo si anima di suoni e voci.
Tutti si riforniscono di acqua riempiendo grosse taniche di plastica dalle fontane pubbliche, trasportandole sui carretti agganciati a biciclette o a motorini.
Se si passeggia per la città è praticamente impossibile non incontrarne uno, li si vede sfrecciare nel traffico carichi di taniche, di sacchi di rifiuti presi dai bidoni.
Una volta giunti nel campo i rifiuti vengono separati: la plastica, l’alluminio , il legno, si vende tutto ciò che è commerciabile, magari nascondendo un sassolino per aumentare il peso delle lattine schiacchiate.
Gli oggetti più interessanti vengono tenuti ed usati per adornare l’interno delle abitazioni.
Quelli di maggior valore vengono rivenduti al mercatino improvvisato ogni giorno al bordo del campo: vestiti, vecchie scarpe fuori moda, orologi, immagini sacre, giochi per bambini…
Le bambole e i peluches finiscono sul tetto delle baracche, in corrispondenza della porta d’ingresso, perché pare tengano lontano invidie e malocchi.
Il campo brulica di bambini festosi, desiderosi di contatto, di attenzioni. Ogni giorno, quando arrivo, parte la gara a chi si accaparra la mia attenzione. Sembrano altri bambini, non quelli che incontro agli angoli delle strade, ai semafori, che mendicano e tentano di pulirti d ogni costo il parabrezza dell’auto.
Gli adulti, sotto il pergolato giocano a carte o a domino, le donne sono le più attive, cucinano, mondano la verdura, fanno il bucato.
Il tasso di scolarizzazione è bassissimo, i figli servono per fare l’elemosina, sono la prima fonte di guadagno e sostentamento per la famiglia, vengono addestrati e mandati in strada prestissimo. Alcuni vengono anche “affittati” ad altri rom, diventano una merce.
La lingua parlata è il romanes, ma anche l’albanese è conosciuto e utilizzato.
La situazione igienico-sanitaria è pessima: la mancanza dell’acqua corrente e di un sistema fognario alimentano la proliferazione di malattie di vario genere. Inoltre non è prevista un’assistenza sanitaria e non ci sono le conoscenze per proteggersi da contagi e per prevenire l’insorgere di malattie.
L’unico supporto viene dato dal personale dell’ong Save The Children, che da anni è presente a Tirana e porta avanti un progetto a tutela dei bambini, che ha come obiettivi la registrazione per prevenire i traffici di organi e di minori, la vaccinazione, la scolarizzazione. L’intervento di questo ente si basa sulla peer educations, (preparazione di personale proveniente direttamente dal gruppo su cui si sta intervenendo, in modo che siano loro stessi artefici e promotori di crescita e cambiamento).
I guadagni ottenuti con l’elemosina spesso sono anche molto alti, ma il denaro viene speso dagli uomini per bere e quello che resta spesso è appena sufficiente a sfamare la famiglia.
Prima di andarmene, l’ultimo giorno, mi arrampico sullo scheletro di uno dei palazzi in costruzione confinanti con il campo, abbraccio dall’alto, in un solo colpo d’occhio, il campo che non esiste, il campo rom detto numero 13, della stazione.
Perché a volte, a forza di essere vento, non si esiste più.
Tirana, Albania, agosto 2009